Articolo di Irene Bignardi, tratto da Repubblica del 19 Ottobre 1998
A 18 anni di distanza "Il Pap'occhio" è ancora molto divertente
Musical stravagante per niente blasfemo
Cosa diavolo avevo da fare di tanto importante nell'autunno del 1980 per essermi persa Il Pap'occhio, prima che una vicenda messa in moto dall'implacabile giudice Bartolomei lo togliesse di mezzo per "vilipendio alla religione dello Stato"? Forse si trattava di gelosia: per una breve stagione - il 1976-77 - ho lavorato anch'io con la Banda Arbore, e ne sono uscita (credo di ricordare) perché non mi sentivo abbastanza spiritosa per stargli dietro. Fatto sta che a diciotto anni di distanza ho visto Il Pap'occhio con occhio (pardon) fresco e innocente, come quello del nuovo pubblico a cui è destinato. E mi sono divertita immensamente - anche se non mi sento di contraddire la Bibbia dei cinefili italiani, il Dizionario di Paolo Mereghetti, che implacabilmente dedica al film una palla e mezza.
In effetti, con tutto l'affetto e il pregiudizio a favore, devo ammettere che Il Pap'occhio (nel frattempo passato, nel giudizio vescovile, da "discutibile" a "futile") non è esattamente grande cinema, nonostante il generoso intervento di un direttore della fotografia come Luciano Tovoli e di un produttore come Mario Orfini. È, in compenso e anche oggi, un gran divertimento. Per quanto abborracciato alla meglio dal punto di vista narrativo, il film di Renzo Arbore e della sua banda offre di tutto un po': satira esilarante, musical stravagante, gioco in famiglia, scherzo goliardico.
E ci sono tutti, quelli della banda, e qualcuno di più, da Isabella Rossellini graziosissima e giovanissima a un altrettanto giovane Roberto Benigni, da Diego Abatantuono ancora pugliese a Luciano De Crescenzo nel ruolo letterale di deus ex machina, dalle sorelle Bandiera al muto Andy Luotto, da Martin Scorsese nel ruolo di un regista tv a Milly Carlucci "suorina buonasera", da Ruggero Orlando a Mariangela Melato nel delizioso cammeo di una "provinanda" che recita La figlia di Iorio e viene scambiata per la figlia di un certo Iorio.
Ma il film è soprattutto un rinfrescante esercizio di antiretorica, che regge benissimo agli anni - altro che "la cinica trama dissacratoria finalizzata alla propaganda dell'ateismo" identificata dal procuratore Bartolomei in un'Italia che non sembra così lontana. Ora che sappiano come Giovanni Paolo II sia, almeno per certi versi, un uomo molto aperto alle follie dei media, e la televisione del Vaticano esiste - e la dirige Pupi Avati -, sarebbe una lezione di stile divertente se trasmettesse il film di Arbore: che come si sa racconta la preparazione dello show di apertura della televisione vaticana, voluta da papa Wojtyla, e cioè dal quasi perfetto suo sosia Manfred Freyberger, un Papa straniero che prende lezioni di italiano, dice spinotti al posto di spinelli ed è preoccupato per il calo dei fedeli cattolici.
Si può aggiungere che in una lunga lista di gag e di idee quasi sempre molto spiritose - la scena di Benigni che passa e ripassa davanti alla finestra e viene scambiato dalla folla di Piazza San Pietro per il Papa è da antologia, il coro che canta in napoletano gli spirituals cari ad Arbore è divertentissimo, il coro a bocca chiusa degli spernacchiatori diretto da Nando Murolo che cantano Azzurro è indimenticabile, Andy Luotto che trova in San Simeone il suo santo del cuore è tenerissimo - l'ironia di Arbore e la sua voglia di dissacrare la retorica ovunque si accampi gli fanno colpire Lelouch e (affettuosamente) Ingrid Bergman, Bobby Solo e Elvis Presley, le canzoni patetiche in stile Non correre papà e be', sì, l'iconografia cristiana dell'ultima cena.
Ma sarebbe difficile trovare nel Pap'occhio qualcosa di blasfemo - anzi, il limite del film è la sua sostanziale bonarietà, i bersagli caserecci, una satira che vellica ma non morde se non all'interno del mondo dello spettacolo. C'è, dall'altra parte, una singolare forma di preveggenza. Non per attribuire ad Arbore, tra le molte sue virtù, anche quella di politologo: ma il lungo monologo di Benigni, comunista di stretta osservanza gramsciana (almeno a giudicare dai ritratti che gli pendono in casa) di fronte al Giudizio Universale, anticipa e ipotizza la fine del comunismo: epocale ribaltone architettato, tra gli altri, dal sosia di Manfred Freyberger. Gianni Di Clemente, distributore con l'Istituto Luce del film, dovrebbero provare a invitarlo al cinema. |